Si respira un’aria da piccolo mondo antico alla Fattoria di Vegi, sulle colline che da Poggibonsi portano verso Castellina in Chianti. E c’è un perché. Addirittura la prima traccia del toponimo – sulla cui origine non ci sono notizie certe, forse può farsi risalire alla rigogliosa vegetazione presente in tal zona – risale all’anno 998 d.C., quando un capitano di ventura, tenendo un diario descrive la zona, ricordando che le terre di Vegi erano state donate dal Marchese Ugo di Tuscia alla Badia di Poggio Marturi in Poggio Bonizio, l’odierno Poggibonsi.
Nel Duecento Vegi e i suoi terreni, assai strategici proprio perché sul confine fra il territorio senese e fiorentino, sono posseduti della famiglia Squarcialupi, signori del vicino castello di Monternano. In quell’epoca a Vegi erano già presenti una torre d’avvistamento, successivamente ampliata a casa colonica e un casino di caccia, che sarà il corpo centrale attorno al quale i successivi ampliamenti daranno luogo all’attuale villa padronale, che risulta, per questo motivo, di architettura originalissima per il Chianti e non riconducibile ad alcuna delle costruzioni e delle ville più antiche della zona. La leggenda narra che gli Squarcialupi tradirono Firenze per passare coi senesi e questo sembra esser il motivo per cui nel 1220 le truppe dell’esercito gigliato invasero la zona, assediando e distruggendo il castello di Montarnano, le cui rovine sono tuttora visibili da Vegi. Si ha poi notizia che nel 1452 questi terreni vennero occupati dalle truppe aragonesi. Dal Quattrocento la proprietà è dei Signori Ugolini, successivamente diventati Ugolini Milanesi, dal cui ultimo discendente acquisisce la fattoria la famiglia Chiostri, che, appartenente alla piccola nobiltà toscana di Montevarchi, a fine Settecento aveva già delle proprietà e produceva vino nella zona del Val d’Arno, vicino Laterina. Ma la fortuna della famiglia la fece Luigi Basilio, che decise di andare a studiare medicina in Austria e la carriera lo portò a entrare nella Corte Asburgica, divenendo “primo dottore”: con certezza è stato il medico personale di Francesco I di Austria e forse del suo successore Ferdinando I d’Asburgo Lorena, mentre non è certo se vide la nascita di Francesco Giuseppe. A seguito del congresso di Vienna, stanco e vecchio, decise di ritirarsi, allora l’Imperatore d’Austria, col quale aveva instaurato anche un ottimo rapporto di amicizia, decise di assegnargli, per la sua fedeltà alla corona, una liquidazione faraonica, letteralmente lo ricoprì d’oro, facendogli anche un altro dono importante, ossia il secondo stemma araldico per la famiglia, mentre il più antico con le tre croci risale alla notte dei tempi. Giovanni Chiostri, bisnonno degli attuali proprietari, grazie al lascito dello zio Luigi Basilio, acquista Vegi nel 1842, ampliando e ristrutturando la fattoria, che all’epoca risultava essere una mezzadria di 355 ettari con 17 poderi, una delle più grandi di Castellina in Chianti. L’eredità, all’epoca per linea maschile, va ai fratelli Silvio e Ettore, mentre all’altro maschio, Alfonso, viene data la magnifica villa di Spoiano, fra i comuni di Tavarnelle val di Pesa e Barberino val d’Elsa. Durante la Seconda Guerra Mondiale, Vegi viene occupata prima dai tedeschi e poi dagli americani. Di quegli anni si trova traccia in alcuni fra i più bei libri dell’autrice Nicchia Furian Raffo, figlia di una sorella di Francesco Chiostri: “Diario del Chianti”, “Gente del Chianti”, “Guerra del Chianti”. Ettore non si sposerà mai per non dividere l’eredità e Silvio lascerà tutto a Francesco, alla cui morte succedono gli attuali proprietari Ida, Sabina e Silvio. La fattoria – attualmente costituita da diverse case coloniche circondate da 95 ettari di terreni, di cui 58 coltivati a vigneto, oliveto e seminativo col sistema della “lotta integrata” – è situata su un colle in posizione dominante e completamente immersa nel verde, tra cipressi secolari.
È Silvio Chiostri, quarta generazione alla guida, a raccontarci di vivere tutto ciò come “un onore e un onere. Del resto la storia incombe alle spalle e la nostra scelta di mettere nelle etichette i nomi di illustri membri della nostra famiglia – viticultori da almeno sette generazioni in Toscana – testimonia la volontà di lanciare il messaggio che dietro a questo vino c’è una storia vera. Quando fu ereditata da mio padre Francesco nel 1927 – pensate che fra me e mio padre in realtà è come se ci fossero due generazioni di distanza, infatti io sono nato quando lui aveva ormai 54 anni – l’azienda era ancora quella acquistata dal bisnonno, ma poi, con l’abbandono dei contadini, i proprietari vissero notevoli difficoltà, non avendo liquidità per far fronte alla nuova realtà fatta di salariati. Così, nella trasformazione da mezzadria a fattoria moderna e per far fronte alla crisi del Dopoguerra, dovette vendere gran parte dell’azienda, ben 260 ettari, per lasciare a noi figli qualcosa: salvò circa cento ettari, ma l’azienda era molto ridimensionata rispetto allo stato originale con una notevole riduzione della capacità produttiva e i casolari tutti da ristrutturare. Personalmente mi occupo dell’azienda da quando morì mio padre nel 1975, anche se negli ultimi anni aveva tirato un pò i remi in barca ed era veramente tutta da ricostruire: avevo 16 anni e facevo la terza liceo scientifico, poi ho continuato gli studi frequentando l’universita di Agraria a Firenze e dal 1995 mi sono stabilmente sistemato qua con mia moglie e i nostri quattro figli. Abbiamo rinnovato l’identità di Vegi con la ristrutturazione degli immobili destinati ad agriturismo con venti posti letto, con l’aumento della superficie a vigneto (oggi 11,5 ettari, di cui dieci a Chianti Classico) e con la sistemazione degli oliveti (sette ettari con 1.500 piante). Abbiamo testimonianze di etichette di ‘Ettore e Silvio Chiostri’ fin da fine Ottocento, ma il babbo smise la vendita in fiaschi negli anni Cinquanta e solo dopo quasi cinquant’anni, durante i quali l’azienda ha continuato a vinificare, vendendo il vino all’ingrosso in partite, abbiamo deciso di riprendere a vendere in bottiglia col nostro marchio e la filosofia di dare la massima qualità nel massimo rispetto della tradizione: solo Chianti Classico fatto coi vitigni tipici. E ciò è stato possibile grazie a una profonda risistemazione complessiva, che ha interessato sia i vigneti che le storiche cantine. Le nostre vigne sono state impiantate tutte tra il 1990 e il 2002 con esposizione a sud su terreni di medio impasto composti di sabbie e argilla e possiamo dire che l’eleganza è data senz’altro dalle caratteristiche del Sangiovese, ma anche dal suolo e dal microclima”. Ma quando racconta dei suoi vini gli occhi si illuminano: “Per il Chianti Classico abbiamo fatto la scelta, visto che la nostra è una famiglia che produce questo vino da secoli, di non seguire la moda degli anni Novanta di ‘imbastardirlo’ coi vitigni internazionali, come purtroppo invece fanno ormai il 90% delle aziende del Chianti Classico e con l’affinamento in barriques e tonneaux, alla moda dei Supertuscans, che tendono a standardizzare profumi e sapori. Abbiamo esclusivamente vitigni autoctoni, costituiti in prevalenza da vari cloni selezionati, infatti al 90% il nostro Chianti Classico è Sangiovese, poi utilizziamo il 10% di Canaiolo Nero, Colorino e Ciliegiolo. Perchè quando parlo di Chianti Classico non parlo di Sangiovese in purezza, infatti per fare un vero Chianti Classico è fondamentale l’aggiunta di alcuni complementari. L’affinamento è in acciaio per due anni, poi un passaggio per otto mesi in botti grandi (da 10 e 25 Hl) di rovere italiano o di Slavonia (o castagno) – fatto ormai rarissimo nel panorama vinicolo mondiale – infine un importante affinamento in vetro per sei-dieci mesi, tecniche utilizzate da sempre dalla famiglia Chiostri. Questo tradizionale metodo, che viene da insegnamenti lontani, se da una parte allunga molto il periodo di preparazione del vino prima della vendita, dall’altro ci permette di ottenere un Chianti Classico come quello d’una volta, oggi originalissimo, esaltando la tipicità del territorio e la diversità fra le annate. Attualmente all’anno facciamo intorno alle 15mila bottiglie, massimo 20mila, per il 70% Chianti Classico annata e un 30% di Riserva, ma con una potenzialità di circa 50/60mila bottiglie. Dopo la ristrutturazione dell’azienda durata dal 1996 al 2004, nel 2005 abbiamo fatto il primo imbottigliamento dell’annata 2003, di cui, a dispetto della pessima vendemmia, abbiamo fatto sia il tipo annata che la riserva, stessa cosa per il 2004, della vendemmia 2005 abbiamo fatto invece solo il tipo annata ed entrambe le tipologie nel 2006. Attualmente abbiamo in vendita il Chianti Classico d’annata 2009 e la riserva 2007. La verità è che il Sangiovese non è un vino che si può vendere subito, lo si poteva fare quando si metteva insieme al Trebbiano e alla Malvasia, facendo un vino da osteria, perché ricordate che il Chianti ha sempre avuto una linea più da battaglia, da osteria e una più importante, da ricorrenza. Oggi, se vogliamo affinarlo bene in botte senza uso di barriques, ossia come il Sangiovese vorrebbe, non si può commercializzarlo prima di tre anni”. Ci descriveresti il tuo Chianti Classico? “Il Chianti Classico Riserva ‘Silvio Chiostri’ si differenzia dal Chianti Classico base ‘Francesco Chiostri’ per la selezione delle uve e per il processo d’affinamento, sia in botte che in bottiglia, molto più lungo. Il risultato raggiunto da queste scelte aziendali, volte a valorizzare al massimo le invidiabili caratteristiche dei nostri vitigni, è l’ottenimento di un Chianti Classico genuino ed elegante, dal sorprendente nervo acido, dove le complesse caratteristiche organolettiche esaltano i profumi speziati del tipico ambiente chiantigiano con una spruzzata di erbe aromatiche. Di una limpidezza brillante, gli aromi vanno dalla mammola al tabacco, dal cioccolato al cuoio con un marcato carattere di finezza, alla bocca è ampio, pulito, armonico, di una delicatezza tendente al velluto, una bella personalità, gran bevibilità e tenace e persistente lunghezza. Pur essendo un vino di carattere, sa accompagnare il palato esaltando i sapori soprattutto di carni grigliate o in umido, peposo, cacciagione, formaggi stagionati e piccanti e tutti quei piatti fortemente speziati. E il mio vino si sta rivelando anche da grande invecchiamento, in bottiglia ha una maturazione eccellente, ma quando lo si stappa ha bisogno, soprattutto la Riserva, di tanta ossigenazione, che fa sprigionare sapori evoluti di frutta secca con sentori di lavanda”. Qui però si produce anche un vino bianco davvero particolare… “Io vedevo i miei ospiti che venivano qui e si facevano la classica mangiata toscana, anche d’estate sotto il sole, con un buon bicchiere di Chianti, ma col caldo era una situazione un pò al limite. Così mi sono ricordato che, quando ero piccolo, i contadini, finito l’acquerello verso maggio, a giugno-luglio andavano col fiasco di Trebbiano, mettendolo all’ombra o, quando c’era, nell’acqua del ruscello. Così è nato un sorprendente ‘bianco Colli dell’Etruria Centrale’ dedicato a Margherita Chiostri, che unisce la struttura e il corpo del Trebbiano Toscano (65%), l’alcolicità e la forte eleganza della Malvasia del Chianti (5%) con la grazia, i profumi e la leggerezza dello Chardonnay (15%) e del Sauvignon Blanc (15%). Al contrario di molti bianchi, sa dare il meglio di sé al secondo anno, caratterizzato com’è da robustezza e sapidità, grandi retrogusti, profumi delicati e mediamente fruttato. Può andare su pesce e carne bianca a 12°C, ma se servito a 14°C-15°C può tranquillamente presentarsi sulla tavola toscana a pieno diritto con cacciagione, carni rosse, grigliate, arrosti, maiale. Col Trebbiano si produce un vino bianco fra i meno acidi, che, proprio per questo, gli permette di esser abbinato a piatti acidi a base di pomodoro, tipici della nostra cucina: una formula vincente, visto che abbiamo dovuto aumentare la superficie vitata”. Ma il tuo fiore all’occhiello è il Vinsanto dedicato a Luigi Basilio Chiostri, imbottigliato in piccole, affascinanti bottiglie dal sapore antico: “È al 90% Trebbiano e 10% Malvasia da un vigneto che ha un clone di Trebbiano particolare, nato proprio qui a Vegi. Facciamo la vendemmia tardiva per un primo appassimento in pianta e le quantità, per questo motivo, variano tantissimo in base all’annata. Dopo di che mettiamo l’uva in castelli di stuoie, distesa in stanze arieggiate naturalmente, fino a fine dicembre-primi di gennaio. Poi lo pressiamo sofficemente e lo mettiamo nei caratelli, che si trovano in soffitta con esposizione a nord, dove rimane ben dieci anni e qui sta la nostra particolarità. Al decimo anno viene svinato e, dopo una prima decantazione, affinato in vetro per altri cinque anni. Il nostro Vin Santo è di un’eleganza unica, la struttura e la tannicità acquisita in anni di caratello si evolve in vetro e si trasforma in cremosa delicatezza. Stiamo vendendo il 1995, cosa quasi unica in Toscana”. Come vedi il futuro della vitivinicultura in Chianti? “Quello del vino è un mondo schizofrenico, soprattutto quello del Chianti Classico, che va sempre a montagne russe, con momenti d’oro, ma anche di profonda crisi. Doversi occupare della parte commerciale vuol dire scontrarsi con una struttura di mercato che privilegia solo le grandi aziende e penalizza le medio piccole. Una struttura commerciale costa, richiede grande organizzazione e budget, servirebbe una mano concreta sotto questo aspetto: in altre realtà del mondo la situazione è diversa, ci sono strutture commerciali condivise, che servono a dar risposte ad aziende piccole e medie, che, nella realtà concreta, sono poi quelle che danno lustro al territorio. Siamo immersi in una struttura burocratica che penalizza la piccola e media impresa e anche questo implica costi importanti e tempi persi, che t’impediscono di fare il lavoro al meglio. Passiamo troppo tempo fra uffici e banche, meno cogli ospiti, in cantina e in vigna: sono sempre fiducioso nel futuro, ma molte aziende sono state vendute e altre sono in vendita, è un momento decisivo, serve attenzione da parte di tutti, anche dalle banche e dalla politica. E poi, se si vuol tutelare il Chianti Classico, non si può andare avanti con un vino Chianti prodotto in quasi metà della Toscana: c’è una contaminazione del marchio che crea grandi difficoltà ed enormi danni”. Si dice che la Denominazione non passi un gran momento…
“Il Sangiovese è un vitigno così elegante ed evoluto che in Toscana riesce a fare vini molto diversi già all’interno del solo Chianti Classico anche se si usa lo stesso clone, marcando molto il terroir: la scommessa è non rovinarlo. Il Sangiovese crea differenze orizzontali ossia di spazio, da collina a collina e verticali ossia a livello temporale, non presentando tutti gli anni le stesse caratteristiche e ha bisogno proprio di esser esaltato nelle sue differenze. Purtroppo negli ultimi 15/20 anni molti imprenditori di recente introduzione nel mondo del vino, seguendo le mode del mercato e affidandosi a grandi nomi dell’enologia moderna, hanno fatto dei vini buonissimi, ma stravolgendo l’identità e l’originalità del Chianti Classico, che gli permetteva di distinguersi dagli altri. Non credo che, per esempio in Champagne, si cambino i vini secondo le dinamiche del mercato e le mutevoli richieste dei compratori. Visivamente il mio è il ‘classico’ Chianti Classico dal rosso rubino, che tende al granato nell’invecchiamento, ma questo per alcuni è penalizzante perché ormai è entrato nell’immaginario comune un colore del Chianti Classico che non è il suo originale. Il Chianti Classico vive una grande crisi perché non si sa più cosa c’è dentro alle bottiglie e poi c’è l’enorme problema che il Chianti sta perdendo i suoi connotati territoriali, avendo dilatato moltissimo i suoi confini originali, mentre è importantissimo identificarsi con un preciso territorio. Oggi molti si dicono ‘Chianti’ solo perché si può produrre sotto il nome ‘Chianti’ e ciò accadeva fin dai tempi antichi, ma con un’importante distinzione tra ‘Vino ad uso del Chianti’ e ‘Chianti’ poi è scomparsa la parola ‘ad uso’ e si sono appropriati del nome. Guardando sul web, ho notato come fattorie nella zona di Vinci e Cetona si identificano agli occhi dei turisti come Chianti, questo porta a un depauperamento della nostra realtà, quella vera e anche delle nostra attività. Il nome Chianti viene diluito ormai in un buon 50% della Toscana, è evidente quindi un vero smarrimento. Dovremmo proteggere e salvaguardare molto di più e meglio il Chianti Classico, non basta la qualità, che per farla seriamente impone dei costi, che poi devi ritrovare sul mercato e oggi non è facile, è assolutamente fondamentale tutelare il marchio e il territorio”.
Fiora Bonelli