Le radici de La Leccia
Il leccio è uno degli alberi più diffusi della macchia mediterranea, ma la leccia no, è termine di fantasia, perché al femminile non c’è.
In Toscana però non vale questa regola o vale un po’ meno, perché questa parola si usa e vale per frazioni, località, strade di campagna.
La Leccia infatti si è sempre chiamata così, una villa di campagna poi diventata fattoria a Montespertoli, che ha sempre portato questo nome e si trova in via della Leccia.
L’albero – al femminile – come ispirazione
Può vivere anche mille anni un leccio, ha una chioma sempreverde, ovale ampia e densa. Ha legno ottimo da bruciare, per fare calore. Un tempo si piantavano lecci per augurare lunga vita ai neonati.
Il senso dello stare assieme, del crescere, dell’accoglienza, può stare tutto in un albero. Come in un’azienda di vino.
La storia della Fattoria La Leccia inizia nel 2013, ma ha una vita precedente che inizia negli anni ’70 del secolo scorso, con l’acquisto del podere da parte di tre fratelli, Renzo, Sergio e Loriano Bagnoli, la prima generazione della nota azienda di gelati Sammontana. Cercavano un posto dove far crescere famiglia e figli in modo spensierato, dove stare tutti assieme in un luogo incontaminato. Le radici già c’erano perché la famiglia era originaria di queste zone.
Qui il senso del logo scelto per La Leccia, dove parte aerea e parte ipogea si intrecciano, le foglie sono come le radici e viceversa, a sottolineare il legame profondo tra la terra e le idee, la casa di famiglia che è anche Madre che genera di continuo. Un racconto grafico che mette in relazione Natura, artigianalità delle lavorazioni e sguardo al futuro. Parte aerea e parte radicale, unite, creano un 8, il simbolo dell’infinito che rappresenta il concetto della ciclicità della vita, di una continua metamorfosi.
La famiglia
Un luogo di spensieratezza e di momenti di crescita che rischiava di perdersi a causa della conduzione non ottimale degli affittuari precedenti all’entrata in scena della seconda e terza generazione. Ecco che La Leccia torna a essere, dal 2013, un luogo di produzione di qualità, un posto del saper fare artigianale che ha sempre contraddistinto l’indole dei Bagnoli. Oggi alla guida troviamo Paola, la prima ad aver creduto nel progetto di “rinascita”, che grazie alla propria determinazione ha saputo far rinascere l’azienda, e il cugino Lorenzo, che del vino ha fatto la propria vita e con passione si dedica all’azienda seguendone ogni aspetto. Ad affiancarli Sibilla, che cura la comunicazione e Angelica, che segue la parte olivicola dell’azienda.
Altro componente fondamentale è l’enologo che sin dall’inizio accompagna la proprietà per tradurre nei vini l’identità aziendale, Gabriele Gadenz, allievo di uno dei più grandi enologi italiani Maurizio Castelli.
Gli investimenti sono fatti con misura e su misura, perché si punta a un cammino di crescita qualitativa senza accelerazioni, forti dell’esperienza imprenditoriale di famiglia.
Il territorio
Siamo nella zona del Chianti fiorentino sui colli della Val di Botte vicino Montespertoli, in un territorio dedito alla viticoltura e all’olivicoltura da secoli.
I buoni terreni, localmente chiamati “alberese”, sono argillosi ma ricchi di scheletro e ben drenati, a quote fra i 200 e 300 metri. Venti sono gli ettari vitati de La Leccia, ma la tenuta intera ne conta circa ottanta, soprattutto a bosco, e a oliveto. Un ecosistema intatto che isola la fattoria da ogni contaminazione esterna e che rende preziosa, ai fini della produzione vinicola, la grande biodiversità che contraddistingue l’azienda dei Bagnoli. Il fascino di questo territorio, già etrusco e poi romano, sta proprio nella ricchezza dei fitti boschi, dei diversi corsi d’acqua, di colline che hanno anche un aspetto montuoso, se pur con cime modeste. La sua quasi impenetrabilità ne fece un campo continuo di battaglia tra il Medioevo e il Rinascimento fra i potenti di Siena e Firenze. Il lascito di quel periodo sono castelli e borghi fortificati, pievi, ville rinascimentali, case coloniche
che rendono magici questi posti. Fu proprio la fine delle guerre tra le due città a portare l’agricoltura tra queste colline che ancora oggi affiancano al vigneto e all’uliveto, boschi di cipressi, di leccio e di quercia.
Nella zona de La Leccia il clima è caldo e secco, grazie alla presenza a nord della cima del Montalbano che scherma l’aria fredda, mentre a sud beneficia del clima più mite proveniente dalla regione del Chianti Classico. Un vantaggio per la sanità delle uve, che, tuttavia, deve fare i conti con periodi di siccità. Per fortuna La Leccia può contare sulla presenza del bosco che costituisce una riserva di umidità importante e sulle brezze marine provenienti dalla Valle dell’Arno.
La sostenibilità
La scelta della conduzione in biologico ha portato nel 2019 alla certificazione e parte da una profonda convinzione che produrre in armonia con l’ambiente sia una necessità improrogabile. Accanto al biologico, l’azienda non fa uso di plastica per la legatura del vigneto, elimina le capsule a feromoni in pvc per combattere gli insetti infestanti, sostituite da un dispenser a spruzzo che funziona solo all’occorrenza. Nelle zone limitrofe ai vigneti, a ridosso del bosco, sono state montate diverse arnie per l’apicoltura, il miglior sistema naturale di monitoraggio per la salubrità dell’ambiente. L’impegno riguarda anche la cantina. L’intervento conservativo ha riguardato le vasche di cemento più piccole – dai 25 ai 40 ettolitri – con l’eliminazione delle più grandi. Questi contenitori richiedono un maggiore controllo della massa all’interno delle vasche, ma che dona ai vini bianchi come ai rossi una vitalità diversa. La tinaia così concepita consente di lavorare sulle microvinificazioni e dedicare tempi più lunghi all’affinamento. Inoltre gli spazi recuperati dall’eliminazione delle vasche grandi sono stati destinati a tonneaux e a botti grandi, scelte in diverse tipologie di legno come acacia, rovere di Slavonia e rovere francese. Negli spazi al piano terra invece è stata allestita la sala di degustazione, creando così un ambiente al contempo funzionale e affascinante. Anche le bottiglie di Metodo Classico Rubedo hanno trovato casa in tinaia, grazie al riutilizzo di alcune pareti in cemento più grandi, trasformate in nicchie per l’elevage delle bollicine. Infine l’olio de La Leccia, altro prodotto che si inserisce nel racconto di uso a tutto campo di ciò che offre la natura della tenuta: 3500 piante di olivi, dai quali nasce l’olio mono cultivar di Frantoio, premiato al suo esordio da importanti guide.
Nella visione di sostenibilità rientra il progetto della nuova bottaia, inaugurata nel settembre 2021. Protagonisti sono i colori della terra che rivestono le pareti di intonaco grezzo, la pietra naturale e il ferro, lavorato esclusivamente a mano da artigiani locali. Sempre in un’ottica di recupero è stata data nuova vita alle vasche di cemento, eredità della vecchia cantina e oggi riutilizzate
I vini
Il discorso dei vitigni autoctoni è centrale e il Sangiovese rappresenta al meglio le radici della famiglia e del luogo in cui ha deciso di far vino. È l’uva più presente nel vigneto di Fattoria La Leccia, con piante che superano i 30 anni.
L’apripista è La Leccia, un Sangiovese che fa solo acciaio e che ricade nella denominazione Docg Chianti Superiore. Punta su una bevibilità semplice e immediata, sul varietale dell’uva che esprime frutta e fiori freschi, sostenuta da una buona acidità. Riprende lo storico nome delle prime bottiglie prodotte a La Leccia.
L’anima del Sangiovese non si limita ai vini fermi però. Da questa bacca rossa sono nati anche due spumanti.
Il Boh, un nome che porta con sé la voglia di una sfida, ovvero quella di spumantizzare il Sangiovese. Siamo partiti con un metodo Charmat nel 2014 e, nonostante un’annata difficile, il risultato è stato così soddisfacente da mettere la pulce nell’orecchio alla famiglia per “osare” anche con il Metodo Classico.
Ecco così nascere nel 2016 il Rubedo Pas Dosé, un Sangiovese metodo classico dal delicato color rosa, dalle finissime bollicine, dal naso sobrio e invitante, dalla bocca senza sbavature e netta nella pulizia e nella lunghezza. Un metodo classico prodotto con affinamenti lunghi, di 36 o 60 mesi.
Il nome nasce da un’idea di Marco Bagnoli, artista e chimico, che ha voluto richiamare la creazione della pietra filosofale che prende forma nel passaggio dai metalli all’oro rosso, il rubedo appunto.
Il racconto degli autoctoni continua al meglio con il Trebbiano Toscano che dà vita al Cantagrillo, un bianco con tre anni di maturazione, che si prende il suo tempo per esprimersi al meglio, a partire dalle tecniche agronomiche mutuate dall’esperienza dei grandi vini del Friuli come il taglio del tralcio e la pinzatura del peduncolo. Questo vuol dire adottare diverse epoche vendemmiali per una raccolta differenziata che va dalle uve un po’ più acerbe a quelle leggermente sovramature. Dopo una fermentazione a temperatura controllata, parte della produzione prosegue la fermentazione e l’affinamento in botti di rovere e l’acacia. Un vino che restituisce nobiltà a un’uva ingiustamente emarginata, con un corpo pieno, dalla bella grassezza bilanciata dalla vena acida, dal colore oro brillante, dagli esotici sentori dei legni ben mixati. Un cru aziendale, circondato da un bosco di lecci dove si sentono i grilli cantare.
Ancora Trebbiano per il vino più prezioso di La Leccia, il Vin Santo dal nome evocativo – e volutamente un po’ scherzoso – Sua Santità. Trebbiano e Malvasia del Chianti secondo le regole storiche di produzione.