Era il 1967, anno in cui cominciavano ad arrivare dalla Comunità Europea i primi contribuiti all’agricoltura per la ristrutturazione delle vigne, grazie ai quali Villa Calcinaia acquistò nel Valdarno un certo quantitativo di vitigni autoctoni da impiantare per il Chianti Classico.
L’anno precedente però, durante la famosa alluvione di Firenze del 4 novembre 1966, l’Arno non solo aveva sommerso e ricoperto di fango mezza città, ma anche tutti i vivai del Valdarno, spazzando via, nel migliore dei casi, tutti i cartellini identificativi delle barbatelle coltivate nelle numerose serre del territorio. Una volta fatta la conta dei danni e tornati pian piano alla normalità, c’era il grosso problema di come identificare la specie delle piante. Accadde allora che quei vivaisti dovettero arrangiarsi molto ‘a occhio’ con valutazioni piuttosto empiriche, per cui chiaramente l’errore ci stava e non certo per malafede: fu una babele di barbatelle e, come da antifona, l’anno successivo arrivarono a Calcinaia Gewürztraminer, Grechetto, Vernaccia, Montepulciano d’Abruzzo e un varietale non italiano, quello che avrebbe fatto la fortuna della vigna di Casarsa. Qui la storia si fa ancor più curiosa, perché, dopo aver impiantato quelle barbatelle, che si credevano autoctone, fu escluso che si trattasse di Sangiovese, Canaiolo e Colorino, attribuendole a una specie di Malvasia Nera. Un equivoco che ha retto per più di trent’anni, fino al 1996, quando, grazie al dottor Bandinelli, eccellente ampelografo dell’università di Firenze, si dette inizio a un programma d’identificazione di tutte le piante madri, da cui arrivò la rivelazione, con stupore unanime, che quel vitigno, in realtà, era un Merlot. Che fare, allora? Si decise, non senza coraggio, d’imbottigliarlo come vitigno singolo, un supertuscan a tutti gli effetti, che vide la sua prima etichetta nel 1997, una produzione che si è ripetuta per tutte le annate successive, tranne il 2002 per i noti motivi climatici. Quindici vendemmie d’un signore francese trasferitosi in Chianti nel 1967, ormai più toscano che d’oltralpe e che, sebbene mantenga quelle inconfondibili caratteristiche bordolesi, rivela in bocca un tannino molto più simile al Sangiovese che al Merlot. Un vino comunque molto mascolino e con un gran potenziale d’invecchiamento, che ha bisogno di un pò di tempo per esprimersi al meglio, proprio come un signore molto riservato”. Questo è il simpatico racconto del Conte Sebastiano Capponi, a cui sono state affidate dalla famiglia le redini di Villa Calcinaia a Greve in Chianti nel 1992. Da uno “scherzo” del Feoga nasce quindi il “Casarsa” IGT, un Merlot di Toscana invecchiato per la maggior parte in carati da 225 litri per almeno 18 mesi nella bottaia sotterranea, locale fresco e naturalmente umido, che registra una minima variazione di temperatura fra inverno ed estate. Ulteriori 12 mesi d’affinamento in bottiglia sono l’ultima cura prima di arrivare alle tavole di tutto il mondo, imbandite di pietanze di carne rossa e cacciagione di teglia, ma il suo gusto meditativo s’accompagna molto bene anche alla conversazioni. Il Casarsa è un Merlot dove il terroir chiantigiano marca molto e si rispecchia sensibilmentesull’estensione sensoriale, per questo possiamo ben dire che “chianteggia” e sa ben invecchiare. E se è vero – come talvolta lo è stato nel mondo del vino toscano – che, da un semplice errore, può nascere un successo, anche per la vigna di Casarsa – poco più di settemila metri che danno vita a una produzione di nicchia di circa 3.500 bottiglie – il ricorso storico è fortunatamente lo stesso. Segue la degustazione di otto annate, che si è tenuta presso Palazzo Capponi alle Rovinate in Via dei Bardi a Firenze.
Paolo Baracchino