Il Vinsanto, vino che potremmo definire quasi magico e alchemico, ha origini ancestrali, narrate tramite miti che si cullano fra il sacro e il profano. È per eccellenza il vino dell’amicizia, della festa e dell’ospitalità, da sempre infatti in casa dei toscani c’è una bottiglia di Vinsanto aperta perché a un amico o un parente, venuto a far visita, non si può non offrirne almeno un bicchierino.
È nota la predilezione, già in epoca medievale, per i vini fermentati dolci e profumati, che già intorno all’anno Mille, nel “Regimen Sanitatis” della famosa scuola medica di Salerno, venivano raccomandati come medicamentosi e consigliati come tonici ricostituenti nei casi di astenia e debilitazione. Un’antica leggenda racconta che, durante il Concilio Ecumenico svoltosi a Firenze nel 1349, il dottissimo patriarca greco Bessarione, bevendo del “vino dolce pretto locale”, esclamò: “Questo vino è Xantos”. Ma la denominazione “santo” deriva dall’uso che se ne faceva durante la Messa, non a caso è anche chiamato “vin de’ preti”, che poi ne furono in passato fra i più appassionati “preparatori”. I “vini forzati e santi”, secondo la classificazione riportata da Arturo Marescalchi nel suo libretto “La degustazione e l’apprezzamento dei vini” (1920), rientravano nella categoria dei “vini di lusso” e se da alcuni decenni purtroppo imperversano sul mercato produzioni industriali a uso turistico di bassa lega, che creano confusione intorno a questo antico vino che fa parte della vera tradizione toscana, finalmente in questi ultimi anni il Vinsanto ha ripreso una sua identità precisa, quella che lo vede posizionato nella prestigiosa categoria dei vini da meditazione. Così oggi il Vinsanto del Chianti riscopre le ragioni di un’antica tradizione anche presso il podere “Le Trosce”, il cui nome lo si deve al fatto che il sottosuolo è molto ricco d’acqua, che ogni tanto affiora, dando appunto luogo dei piccoli scrosci, che fu acquistata nel 1956 da Rizieri Nuti. Oggi questo bel pezzo di terra a Castelnuovo Berardenga, vicino a San Gusmè – sei ettari e mezzo, di cui tre condotti a vigna, la stessa che fu piantata negli anni Cinquanta col sistema del promiscuo, cioè in mezzo agli olivi – in uno dei luoghi paesaggisticamente più suggestivi e vocati alla viticoltura del Chianti storico senese, è coltivato dal figlio Maurizio, coadiuvato dalla moglie Luciana Landi e da tutta la famiglia: “Bisogna dire che, fin dai tempi di mio padre, tutti hanno sempre detto che il nostro vino era particolare, poi, avendo oggi la fortuna di aver conservato questo ancor vigoroso vigneto di oltre sessant’anni, che ci dà poca uva, ma bellissima, e confortati dall’entusiasmo di molti estimatori sulla qualità del nostro Chianti Classico, un vino molto tradizionale, elegante, delicato, dal 2009 abbiamo deciso di imbottigliarlo con una nostra etichetta. I nostri pochi ettari di vigna ci consentono di mantenere la manualità e l’artigianalità nel trattare ogni metro di terreno e ogni passaggio della vinifi cazione e dell’affinamento in cantina. La nostra filosofia di produzione segue rigorosamente il criterio della naturalità, dai nostri terreni infatti è bandita la chimica e non usiamo lieviti aggiunti, per una valorizzazione massima del Sangiovese chiantigiano con l’aggiunta di altri vitigni autoctoni, come il Canaiolo. Seguendo le tradizioni della campagna toscana, altra cosa a cui teniamo molto sono i nostri olivi centenari, fortunatamente infatti la famosa gelata del 1985 ci ha colpiti solo in maniera marginale, che ci danno ogni anno una ventina di quintali d’olio extravergine, caratterizzato da profumi molto complessi e intensi. Ma la vera novità è che da quest’anno abbiamo deciso di imbottigliare anche il nostro Vinsanto, un prodotto autentico, originale e genuino, che si discosta dalle ormai innumerevoli omologazioni”. Maurizio, ci parli di come nasce il tuo Vinsanto del Chianti? “Sono circa dieci filari di vigna dei primi anni Novanta, un misto di Trebbiano e Malvasia, davvero una bella qualità d’uva bianca, circa 7-8 quintali in totale. Di solito l’uva per il Vinsanto la vendemmiamo a fine ottobre, dopo circa 15 giorni dalla vendemmia delle uve rosse e, dato che è molta, scegliamo veramente con molta accuratezza i grappoli migliori, scartando quelli punti dagli insetti. Successivamente viene messa in stoini di cannicci in uno strato leggero e lasciata appassire al buio e al fresco in un apposito fruttaio che abbiamo adiacente alla cantina fino alla fine di dicembre, infatti la tradizione voleva che si aspettasse fino a dopo Natale. Infi ne l’uva, che in questo periodo perde circa il 70% del suo peso originale, raggiungendo il contenuto zuccherino utile per la realizzazione del Vinsanto, viene ammostata e pressata gentilmente, quindi messa a invecchiare in piccoli recipienti di legno – i tradizionali caratelli, fatti con legno di rovere, che chiudiamo ermeticamente col cemento – dove fermenterà lentamente in maniera naturale, seguendo le stagioni e gli sbalzi di temperatura per alcuni anni: attualmente siamo partiti con tre anni d’invecchiamento, però è nostra intenzione arrivare almeno a cinque. Da circa otto quintali d’uva all’anno ricaviamo circa 130 litri di Vinsanto, che imbottigliamo, rigorosamente senza filtrazione, che è una cosa importante, in circa 300 piccole, preziose bottiglie da 375ml”. Voi usate la ‘madre’ per la fermentazione in caratello? “Certo, è un mito, il nostro mosto dolcissimo all’interno del legno è sempre a contatto con questo speciale, quasi misterioso e antico lievito, che si è affinato e trasformato in solitudine, senza l’intervento dell’uomo, a contatto soltanto con le doghe e la pochissima aria che traspira, grazie all’autoselezione delle cellule che ne compongono l’anima. Addirittura la nostra madre, che nel tempo si è sempre più specializzata nella fermentazione dei mosti del Vinsanto, risale a più di cinquant’anni fa”. E infine l’ultimo atto, l’apertura dei caratelli, un rito sempre emozionante… “Certo, perchè non sai mai cosa può venir fuori, poi, quando vedi questo nettare dal color ambrato bellissimo, si scioglie il cuore… Per non parlare del profumo, fine, delicato e caratteristico, con note di frutta secca e candita, albicocca e scorze d’arancio, di una complessità molto sfaccettata, al gusto è morbido e opulento, dà un pò sul dolce, ma ha anche quel giusto secco – proprio come secondo me dovrebbe essere il Vinsanto – che non stucca, lasciando la bocca vellutata, pulita e asciutta, con un retrogusto di una lunghezza infinita, che ti fa venir voglia di berlo e riberlo. Tutte sensazioni che mi riportano a quelle che provavo negli anni Cinquanta e Sessanta coi Vinsanto dei vecchi contadini e pure al Podere Le Trosce c’è sempre stata una bella tradizione di Vinsanto, tant’è che anche quello che faceva Gigi, il mezzadro che abitava qui quando comprò mio babbo, era molto conosciuto e apprezzato”. Com’era considerato il Vinsanto in Chianti? “Era un vino raro, da tenere in gran considerazione, avevamo dei bicchierini piccolissimi, si teneva per la levatrice, per il dottore e per la settimana santa si presentava un bicchierino con le uova benedette. In cucina era speciale per farci lo zabaione e i genuini dolci casalinghi, le mantovane, le crostate, i cantuccini e i biscotti cotti nel forno a legna, ai quali regalava un aroma elegante e inconfondibile. Oggi lo berrei anche accompagnato a un grande formaggio”. Mi hai confessato però che in realtà la volontà di fare il Vinsanto, come conservazione del patrimonio della cultura contadina, viene dalle donne della famiglia… “E’ la verità, sono loro – mia moglie Luciana e le mie figlie Virginia e Valentina – che mi hanno convinto a valorizzare al massimo le nostre uve bianche e mi aiutano molto nelle varie lavorazioni del Vinsanto, che pretendono tempi lunghi e tanta pazienza, soprattutto per stendere negli stoini i grappoli di otto quintali d’uva, uno a uno per benino, perché non si devono assolutamente ammaccare, roba da donne…”.